01 - 06
2002
Un mio articolo pubblicato nella rivista “Linguaggio Astrale” n.91 – Estate 1993
Eroe nazionale babilonese, 13° re-sacerdote della prima dinastia di Kish, “la città che gli dèi formarono” (“ala i-ci-ru“, che è poi anche il titolo originale del poema in questione), Etana rappresenta uno dei primi “legami sacri” fra l’uomo e la divinità.
E’ lui, il “Pastore del popolo”, il protagonista di questa storia.
Secondo le cosidette “liste regie”, Etana regnò su Kish, in epoca antidiluviana, per ben 635 anni.
Il mito di Etana di Kish, di soggetto prometeico, è giunto fino a noi in vari frammenti di epoca Amurrea (2.000 a.C. circa) e ricostruito poi utilizzando altre fonti sempre frammentarie.
Pare comunque trattarsi di due storie abilmente fuse assieme (la ricerca dell’erba della fertilità e la storia dell’aquila e del serpente).
Si dice che Etana si Kish non riuscisse ad avere un erede, cioè sua moglie non riusciva a partorire, e in conseguenza di ciò “Kish piangeva“. Per questo il re va in cerca dell’erba della fertilità, o erba del parto (“shammu sha alàdi“), e si rivolge a Shamash (in accadico Babbar, corrispondente al sumerico Utu) il dio del sole, che lo rinvia all’aquila.
Con questa sale verso il cielo per andare a prendere l’erba (giacché è la che stava) ma, preso da stanchezza o da un capogiro, precipita e muore.
Come Gilgamesh, anche Etana si vede sfuggire l’erba della vita.
Fonti storiche dicono comunque che sul trono di Kish, dopo la morte di Etana, salì suo figlio Balikhu, ciò che farebbe intendere una risoluzione del problema iniziale (altre fonti dicono che Etana non morì, continuò a regnare ma senza discendenti).
Il Libro di Etana di Kish
C’era un tempo in cui ancora non esistevano sulla Terra né re né templi; gli uomini vivevano senza un loro “pastore” e tutto il potere era nelle mani degli dèi. Non sapeva l’uomo darsi un re, e questo agli dèi non piaceva, così gli uomini vennero presi in odio, e malattie e morte furono scaraventate sulle città.
Ma due fra questi dèi, con occhio più benevolo guardavano le “teste nere” (i Sumeri), e decisero che la regalità sarebbe scesa dal cielo: Inanna (dea di Uruk, per i Sumeri Ishtar) per giorni e giorni si mise alla ricerca, e con lei Enlil (dio di Nippur, il toro sdraiato), che ispezionò i troni del cielo. Dopo che entrambi ebbero cercato, la scelta cadde su Etana, umile pastore.
“Etana è un fedele e buon pastore. Sarà lui che custodirà il popolo e sarà egli En [Signore]”, disse Inanna.
Così Etana fu condotto a palazzo reale e subito furono celebrate le cerimonie dell’incoronazione. Sacerdoti e maghi offrirono agli dèi succulenti cibi e prelibate bevande affinché desistessero dal loro malvolere e concedessero protezione all’En e al regno. Secondo le usanze, Etana fu condotto in appartate stanze perché fosse unito ad un’eletta e sacra sposa, e perché da tale unione il paese traesse impulso e sviluppo. Ma gli dèi, per quanto succulenti fossero i cibi e prelibate le bevande, non concessero la loro protezione, e castighi e pestilenza giunsero sulla città, e la sposa di Etana non concepiva. Alla fine, vedendo che la sua sposa rimaneva sterile, e che ogni giorno che passava il suo popolo si assottigliava sempre più, Etana si rivolse al dio Shamash: “Signore, gli dèi ho onorato, gli spiriti ho riverito, i miei agnelli hanno soddisfatto gli dèi. Signore mio, un comando esca dalla tua bocca: dammi la pianta della generazione, strappa dal ventre la mia discendenza e stabiliscimi un nome!“.
Shamash aprì la bocca e disse a Etana: “Vai per la tua strada, varca la montagna, guarda la fossa, osserva il suo interno! Lì è stata gettata l’aquila: essa ti farà vedere la pianta della generazione“.
Antefatto: l’aquila e il serpente
(Un’aquila propone ad un serpente di vivere in amicizia e collaborazione; il serpente accetta, ambedue fanno giuramento davanti a Shamash: chi verrà meno al giuramento sarà da Shamash punito. Ha così inizio la collaborazione tra l’aquila e il serpente).
All’ombra dell’albero procreò il serpente, mentre l’aquila generò sul suo picco.
Tori selvatici ed asini prendeva l’aquila: il serpente li mangiava, poi smetteva, e mangiavano i suoi figli.
Capre e gazzelle prendeva il serpente: l’aquila li mangiava, poi smetteva, e mangiavano i sui figli.
Antilopi e stambecchi prendeva l’aquila: il serpente li mangiava, poi smetteva, e mangiavano i suoi figli.
Pantere e leoni di campagna il serpente prendeva: l’aquila li mangiava, poi smetteva, e mangiavano i suoi figli.
Dopo che i figli dell’aquila furono cresciuti e diventati grassi, l’aquila nel suo cuore concepì cattivi pensieri:
“Del serpente più bisogno non ho; i miei figli da sé medesimi il cibo possono procurarsi. E’ ora che al mio personale vantaggio io pensi. I figli del serpente voglio mangiare, il cuore del serpente voglio divorare! Salirò sul cielo e lì mi siederò. Chi è più grande di me?“.
Ma un suo piccolo, molto intelligente, disse queste parole: “Non mangiare, padre mio, ricorda il giuramento. Chi trasgredisce, Shamash con la mano di un ammazzatore lo ammazza malamente!“.
Ma l’aquila non ascoltò; discese e mangiò i figli del serpente…Il serpente piangeva: “Confido in te, Shamash; all’aquila avevo concesso il mio favore, del male non pensavo contro la mia amica. Quanto ad essa, il suo nido è sicuro, disperso invece è il mio, il mio nido è lacerato dai suoi artigli. Salvi sono i suoi piccoli, ma non ci sono più i miei figli. Essa è discesa e ha mangiato la mia prole“.
Quando intese questa preghiera, Shamash aprì la bocca e disse al serpente: “Vai per la tua strada, passa la montagna. Per te un toro ho ucciso. Entra nel suo ventre e prendivi dimora. Ogni specie di uccello discenderà e mangerà la sua carne. Anche l’aquila. Quando essa entrerà all’interno la prenderai per le ali. Strappale le ali e gettala in una fossa. Essa muoia la morte della fame e della sete!“. E così fu fatto, e l’aquila giace nella fossa, morente.
Shamash disse all’aquila: “Sei stata malvagia, una cosa vergognosa hai fatto. Ma un uomo ti manderò, ed egli ti farà uscire dalla fossa, ma tu dovrai aiutarlo“.
“Egli mi faccia uscire dalla fossa! Gli darò ciò che desidera. Io farò qualsiasi cosa egli mi dirà!“, disse l’aquila.
Etana e l’aquila
(È a questa aquila che Shamash manda Etana).
Pianse e sospirò nella fossa l’aquila. Per comando di Shamash, egli, Etana, la fece uscire dalla sua fossa. Un piccolo uccello ella ottenne; si rifocillò e riacquistò forza. L’aquila aprì la bocca e disse a Etana: “Dimmi ciò che desideri da me, te lo darò“. Etana disse: “Amica mia, dammi la pianta della generazione, fammi vedere l’erba del parto. Ciò che uscirà dal seno della mia regina mi stabilirà un nome!“.
L’aquila promise di procurargliela, una volta che avesse ripreso le forze. Per otto mesi Etana le portò cibo. Guarita, l’aquila disse a Etana: “Appoggia il tuo petto contro il mio dorso, afferra con le mani le mie ali, pianta i gomiti nei miei fianchi. Sto per librarmi nell’aria. La pianta che tu cerchi è nel cielo di Anum, presso il giardino di Inanna“.
Essa lo innalzò per il cammino di un’ora doppia.
“Amico mio – disse l’aquila – guarda il paese com’è!“.
“Il vasto mare è come un recinto per il bestiame!“, disse Etana.
Essa lo innalzò per il cammino di due ore doppie.
“Amico mio – disse l’aquila – guarda il paese com’è!“.
“Il paese si è cambiato in un orto e il vasto mare è come un cesto!“, disse Etana.
Essa lo innalzò per il cammino di tre ore doppie.
“Amico mio – disse l’aquila – guarda il paese com’è!“.
E vide Etana la Terra come un fossatello di un giardiniere.
E giunta che fu la quarta ora doppia, l’aquila vide la paura negli occhi di Etana.
Ascesero fino a Inanna. “E ora?“, disse l’aquila. “E ora, più nulla vedo. Non vedo, ora“, disse Etana. E preso da spavento si rivolse all’aquila: “Batti il passo, affinché io ritorni sulla Terra!“.
Ma ebbe vertigine, e le sue mani si intorpidirono, e niente divenne il corpo: si sentiva scivolare, e con un grido trascinò in rovina sé e l’aquila.
Per due ore doppie essi precipitarono. L’aquila cadde e lui le stava davanti.
Poi il precipitar ancor li seguì.
Commento
Molto vi sarebbe da dire a commento di questo poema, ma ci limitiamo ad alcune considerazioni e osservazioni.
Sappiamo che le più o meno strane avventure in cui vengono coinvolti gli eroi e gli dèi che popolano le storie mitologiche, come quelle, ampiamente sfruttate dalla letteratura religiosa, relative al re o all’eroe del momento che sale sul dorso di un’aquila o di altro animale, certamente nascondono avvenimenti capitati realmente a chissà chi e in chissà quale tempo e luogo, e la cui sopravvivenza come “testimonianza storica” dipende esclusivamente dall’essere inseriti, trasformati in “vicenda fantastica”, nelle trame mitologiche.
Di questi “miti di ascensione”, e comunque di storie che hanno come fine la ricerca di un qualcosa (sia essa la tanto agognata immortalità o, come nella storia ora descritta, l’erba della fertilità), troviamo traccia un po’ in tutte le culture: basti ricordare, tanto per fare alcuni esempi, Aristofane (445-388 a.C. circa), che ne fa una caricatura nella sua commedia “La Pace“, dove fa salire al cielo il suo eroe sul dorso di uno scarafaggio.
Oppure pensiamo all’anima dell’eroe celtico Lugh, che saliva al cielo sotto forma di aquila mentre il suo successore lo uccideva a mezza estate. Tracce che farebbero pensare al mito di Etana le ritroviamo poi in un racconto popolare finnico, dove l’eroe del romanzo viene sollevato in aria da un grifone e vede la Terra diventare sempre più piccola sotto di sé; quando essa gli appare “non più grande di un pisello“, il grifone si tuffa diritto fino al fondo del mare, dove l’eroe trova l’oggetto per cui tanto aveva penato, riuscendo alla fine a tornare sulla terraferma.
Anche nel “Romanzo di Alessandro” (ovvero Alessandro il Grande), di epoca medioevale, vediamo che l’eroe dovette misurare le profondità del mare, venne poi portato in cielo dalle aquile e navigò per i mari più incredibili alla ricerca dell’acqua dell’immortalità.
È il “mito dell’ascensione”, che è parte integrante della struttura archetipica dell’uomo, è il mito dell’eterno ritorno (vita-morte-rinascita) che si specchia in queste storie.
Per quanto riguarda la storia di Etana di Kish, qui si inserisce anche quella che è la lotta fra Aquila e Serpente (tema dominante della mitologia eurasiatica), ovvero l’anno che nasce e l’anno che muore, la lotta fra luce e tenebra, fra il principio solare e quello sotterraneo.
È, l’aquila, uccello solare, rappresentante del fuoco e del sole, dell’altezza e delle profondità dell’aria e della luce, e comunque del re visto come “figlio della luce”. L’aquila ha anche il potere di ringiovanire: si dice che bruci le proprie ali al sole e che poi si tuffi in un’acqua pura ritrovando così una nuova giovinezza.
È quindi utilizzando un’aquila che Etana può cercare l’erba della fertilità, che è “erba viva”, di nascita e soprattutto di rinascita.
Al contrario, il serpente, o drago, è il prototipo, lo spirito dell’acqua originaria, rappresentando così uno fra i più importanti archetipi dell’Anima; se l’aquila è l’incarnazione dei valori solari, il serpente lo è per quelli lunari e comunque notturni, il che non vuol dire “negativi”. D’altronde il serpente lo si ritrova alle sorgenti della vita con assimilazioni all’anima e alla libido; sappiamo che i Caldei avevano un unico vocabolo per ‘vita‘ e ‘serpente‘.
Aquila e Serpente si fondono poi come simboli in quello che è l’ottavo Segno della cintura zodiacale, appunto lo Scorpione, Segno di vita-morte-rinascita, il che ci fa vedere come l’aquila altri non sia che l’attributo solare, di potenza celeste, dello stesso serpente, così come quest’ultimo diventa attributo notturno, quindi di rigenerazione/immortalità, dell’aquila. Possiamo vedere questo ben espresso nell’iconorafia tolteca (cioè riferita a quella popolazione precolombiana, appunto i Toltechi, presente nella civiltà messicana dall’VIII al XII secolo), ripresa poi nel XIV secolo dalla gente della tribù di Nahua (conosciuti come Aztechi), dove si vede l’uccello predatore affondare i propri artigli nel corpo del serpente (Quetzalcoatl, che rappresenta il pianeta Venere) per estrarre il sangue destinato poi a formare l’uomo nuovo.
Vediamo quindi come il serpente rivolga contro se stesso quello che è appunto il suo attributo solare, così da fecondare la terra degli uomini.
La lotta fra l’aquila e il serpente, allora, più che tale, apparirebbe come un “sacrificio” del serpente (imposto da circostanze cosmiche?), che si fa attaccare dall’aquila per morire ma che poi rinasce attaccando l’aquila, come a dire l’eterno ritorno della vita e della morte, la morte seguita da una rinascita.
Per inciso, la lotta fra l’aquila e il serpente potrebbe agevolmente inserirsi nella contrapposizione patriarcato/matriarcato, avendo l’aquila attributi solari/maschili e il serpente attributi notturni/femminili (Jung vede nell’aquila un simbolo paterno, ed essa è simbolo prioritario del padre, così come la maggior parte delle tradizioni fanno del serpente il “signore delle donne”, signore della fertilità, quindi elemento caratteristico della società matriarcale; la lotta fra aquila e serpente può anche essere vista come un’allegoria del passaggio dal matriarcato al patriarcato, ovvero da una coscienza “femminile” ad una “maschile” della società).
Anche, è possibile che ciò stia a significare una reale lotta avvenuta tra due civiltà diverse (una autoctona, terrestre, rappresentata dal serpente, l’altra siderale, e comunque allogena, posteriore, rappresentata dall’aquila), razze differenti che, malgrado la loro incompatibilità dovuta anche ad esigenze fisiche, inizialmente decisero di convivere in pace spartendosi la Terra.
Per ritornare al mito di Etana, è interessante notare come tutta la storia sia incentrata su questa ricerca dell’erba della fertilità, termine che sembra nascondere quello che è il prototipo di ogni “erba” o “pianta” mitologica, cioè l’Albero Sacro (kiskanu), l’Albero della Vita, e che si trova al “centro del mondo”, quindi “asse del mondo”, “asse dell’universo” (skambha), albero della vita i cui frutti danno l’immortalità (o, in altre versioni, ‘semplicemente’ la salute), che danno cioè il ritorno al “centro dell’essere”, a quello che si può definire come “stato edenico”, e sui cui rami noi ritroviamo nientemeno che il serpente (e quando mai se ne è allontanato!), quello stesso che consigliò a Adamo ed Eva di coglierne i frutti.
Altresì interessante è sapere che questa erba del parto aveva le sue radici nel cielo di Inanna, ovvero nasceva in quello che era il giardino della dea e che si trovava a Uruk, città a lei sacra.
Ma non era un viaggio siderale quello intrapreso dall’aquila e da Etana?
Facciamo presente che Inanna (Ishtar) è come pianeta Venere e come stella Sirio, ovvero il nome Ishtar appartiene sia a Venere che a Sirio.
Fra gli attributi tradizionali relativi a Venere/Sirio figurano l’arco e la freccia: nel testo rituale del Capodanno babilonese ci si rivolgeva infatti a Sirio chiamandola “mul KAK.SI.DI che misura le profondità del mare“.
“Mul” è il determinativo di “stella“, mentre “KAK.SI.DI” significa “freccia“; l’arco da cui viene scoccata la freccia è la costellazione formata dalle stelle di Argo (gruppo di tre costellazioni fra cui quella della Carena, ove brilla Canopo) e del Cane Maggiore.
Fra le tante occupazioni che Inanna-Ishtar aveva, vi era anche quella di “summuovere l’apsu davanti ad Ea“; nel senso qui inteso, “apsu” ha il significato di “abisso“, ma significa pure “Casa del Sapere“, di cui era dio-custode Enki/Ea, cioè il Saturno mesopotamico, Casa (E-apsu) che si trovava a Eridu, luogo che abbiamo visto avere la sua ‘controparte celeste’ nella stella Canopo (si veda quanto detto ne “Il mito di Adapa di Eridu o il Quadrato di Pegaso“).
Abbiamo quindi un legame fra Sirio, l’alfa della costellazione del Cane Maggiore, e Canopo, l’alfa della costellazione della Carena, ovvero fra Venere-Inanna-Ishtar che sta su Sirio e Saturno-Enki/Ea che sta su Canopo.
Era quindi su Sirio (o Venere?) che Etana doveva andare per cercare l’erba della fertilità, l’erba della vita? Suggestiva ipotesi che allargherebbe oltre i confini terrestri la nascita della vita sul nostro pianeta!
Ritornando al commento su questo mito, Etana che sale agli spazi siderali in groppa ad un’aquila e che poi precipita, si dice, nei flutti dell’oceano, racchiude tutto il cammino attuato sull’itinerario “vita-morte-rinascita”, quest’ultima attuata nell’acqua, così come fa l’aquila dopo essersi esposta ai raggi del sole.
Ahinoi! Nel mito di Etana colui che cercava è morto, e comunque, colui che cerca, che tenta di strappare l’immortalità quando non gli è data, o, come in questo caso, la fertilità quando invece è sotto punizione per il cattivo raccolto che aveva caratterizzato il suo regno (così sembra secondo certi frammenti Amurrei del mito), alla fine non ottiene nulla, così come successe a Gilgamesh quando perse l’erba dell’immortalità che tanto aveva cercato perché, lasciandola su di una pietra in prossimità di uno specchio d’acqua dove lui si era tuffato per rinfrescarsi, questa gli viene rubata, pensate un po’, proprio da un serpente!
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